Mentre assistiamo all’escalation della guerra di aggressione della Russia in Ucraina, il fenomeno del terrorismo non ha cessato di esistere, soprattutto nel continente africano, dove i gruppi estremisti islamici continuano a mietere vittime nei loro attacchi. Come rilevato nell’ultimo monitoraggio pubblicato dal Centro di studi strategici sull’Africa con base a Washington, negli ultimi dieci anni nella macroregione la violenza dei gruppi islamisti militanti è aumentata del 300% ed è raddoppiata rispetto al 2019, concentrandosi prevalentemente in due teatri: il Sahel occidentale e la Somalia. Diretta conseguenza dell’esponenziale ampliamento dell’insorgenza è il contestuale incremento del numero di paesi africani interessati da una sostenuta attività di gruppi radicali islamici, che dai cinque del 2010 è arrivato a 20 nel 2022. Numeri molto eloquenti, che testimoniano il costante aumento dei livelli di violenza dell’estremismo islamico in Africa, alla cui origine ci sono vari fattori primari riconducibili a povertà, marginalizzazione e sottosviluppo. Ai quali spesso si accompagnano anche i bassi livelli di istruzione, la mancanza di contatti con altre etnie, genitori assenti durante l’infanzia e una minima comprensione dei principi fondamentali dell’islam. Nel frattempo, i gruppi di ispirazione salafita come al Qaeda e lo Stato islamico si stanno radicando in molte aree del continente, dove possono trovare un vuoto di governance, che consente ai gruppi terroristici di guadagnarsi lo spazio di cui hanno bisogno per operare. L’esempio più evidente si è registrato in Mali, dove dal 2013 le truppe francesi avevano guidato le missioni antiterrorismo Serval e Barkhane, per poi annunciare il ritiro di quest’ultima a metà dello scorso febbraio e ultimarlo alla metà di agosto. I militari francesi si sono riposizionati nei paesi vicini del Sahel, in particolare Niger e Ciad, per continuare la lotta contro l’insurrezione jihadista insieme agli uomini della missione europea Takuba, togliendo un prezioso alleato alla sempre più affievolita forza regionale G5 Sahel e alla missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite in Mali (Minusma), per combattere contro i militanti islamisti in Mali. Né l’esercito governativo, né i contractor russi del Wagner Group, che dallo scorso 6 gennaio hanno iniziato a dispiegarsi in Mali, hanno finora dimostrato di poter colmare il vuoto lasciato dalle due operazioni antiterrorismo guidate dai francesi. Alcuni osservatori ritengono che le missioni antiterrorismo siano fortemente penalizzate da problemi strutturali ed errori operativi, che hanno decretato il fallimento della Barkhane in Mali. Mentre la corruzione avrebbe minato lo sforzo degli Stati Uniti di addestrare una forza antiterrorismo efficace in Somalia. Senza dubbio, tali missioni hanno avuto effetti a breve termine, che implicano la distruzione della leadership degli insorgenti, la riconquista del territorio sottratto dalle forze jihadiste e impedire ai gruppi estremisti di coordinare attacchi più grandi a livello locale o transnazionale. Tuttavia, le vittorie militari fanno guadagnare solo tempo per risolvere il problema più difficile, quello di colmare le lacune di governance e l’aumento del sottosviluppo, che favoriscono lo scoppio delle insurrezioni islamiste rafforzando le motivazioni che hanno prodotto l’insurrezione. Gli eventi passati dimostrano che concedere ai gruppi estremisti più libertà d’azione non può far altro che alimentare la minaccia del terrorismo, creando il contesto ideale per i jihadisti a vocazione globale di pianificare attacchi su larga scala, affinare le capacità e accumulare risorse. Per esempio, tra il 2009 e il 2010, al-Qaeda nella penisola arabica e al-Shabaab in Somalia sono passate da minacce regionali a globali, facendo perno sulle capacità e sui militanti locali per pianificare attacchi contro aerei di linea di compagnie statunitensi e africane. Senza dimenticare, che l’Africa sta diventando sempre più strategica per lo Stato islamico, che vi trova terreno fertile per la radicalizzazione e l’espansione dei propri interessi, come conferma l’editoriale apparso lo scorso 16 giugno su al-Naba, il settimanale di propaganda dell’Isis. Nel comunicato, lo Stato Islamico loda i suoi combattenti e li incoraggia a emigrare nel continente per stabilire nuove basi operative per affiancare i combattenti in Mozambico, Mali, Nigeria e Sahel, incitandoli a continuare la lotta fino alla rinascita del Califfato, che per quattro anni aveva assunto il controllo di una vasta area compresa tra la Siria nord-orientale e l’Iraq occidentale. Uno scenario allarmante, nel quale è possibile che i jihadisti non si limiteranno alle affermazioni locali, ma spronati dai successi metteranno in atto nuove offensive sui nemici vicini e lontani, che non hanno mai dimenticato.